-Da due mesi indosso solo tute da ginnastica e scarpe comode. Niente orologi né gioielli. I capelli raccolti, poco trucco, nel vento caldo di un aprile che già somiglia a giugno.
Di tutto e di tutti mi stanco, irrimediabilmente e presto, ma della Natura mai. Posso percorrere ogni giorno lo stesso tratto di pochi metri, ma ogni giorno il viaggio sarà differente. Silenzio, completezza, letizia e pace: erano anni che non davo del tu alla Primavera in questo modo. Come sempre nella vita, le cose migliori riescono se si assecondano le curve, perché qualcosa di buono c’è sempre: nella polvere che vola, nel fiore che si apre, nel sonno che non caglia, nel treno già passato.
-Mi chiedo perché, nei momenti di difficoltà, viene naturale andare a cercare in cassetti dimenticati le foto del passato. È qualcosa di molto simile a quello che succede per esempio nella Storia dell’Arte quando, in momenti di particolare crisi storica e sociale, nel cuore delle avanguardie più audaci gli artisti sono tornati alla Classicità. Perché era quello il tempo del mito, libero dalla paura e da ogni forma di corruzione. Era, quella delle nostre vecchie foto, una stagione della vita che ci vedeva integri e protetti, e poi audaci, coraggiosi, folli. Tutto accadeva allora per la prima volta e senza rimpianti. Erano vive accanto a noi le persone più care, oggi scomparse. Neanche sapevamo cos’era la morte. Se qualcuna di quelle ci è rimasta vicino, spesso l’abbiamo persa ugualmente in modi diversi. C’era in quelle foto una parte di noi essenziale che non tornerà più, spenta da tutte le cautele dell’essere adulti. Per cui alla fine, rivedere come eravamo non è un atto di vanità, ma una carezza indulgente ed estrema a chi fummo e che ancora vorremmo diventare.
-Il confino è stato per me uno dei periodi più fertili e catartici degli ultimi anni. Spegnere i motori mi ha aiutata a fare silenzio intorno e dentro. Ho tornito oggetti che avevano spigoli, portato luce in luoghi che stavano all’ombra. Mi sono accorta che la gran parte delle mie attività era dettata da inquietudine e noia, raramente da vero interesse. Ho potato attività lavorative che si erano consumate per il corso naturale degli eventi. Ho capito che pochi amici avevo e che quei pochi sono rimasti. Ho allontanato dalla mia vita uomini immaturi e confusi, che sotto la comoda, ipocrita etichetta di ‘amicizia’ non volevano che continuare a prendere altrove ciò che le loro scelte sbagliate non gli hanno offerto. Ciò che ho conservato non è andato a male. Ciò che andava utilizzato ha trovato solo in questi giorni il proprio impiego. Piccoli incidenti che al momento parevano disgrazie, si sono invece rivelati la soluzione ottimale per lunghe cancrene in corso. Prima, se dovevo uscire andavo sempre di fretta, perciò accorpavo tutte le commissioni in zona, per impiegare il minor tempo possibile. Adesso, per forza di cose ho imparato a dilazionare, a rallentare, prevedendo lunghe attese da affrontare con pazienza. Se devo uscire per necessità vado a piedi. Camminare è diventato per me un impegno indefettibile, una vera e propria occupazione che, a parte il beneficio per la salute, mi tiene allenata all’attenzione verso i dettagli della vita che mi si muove intorno, consentendomi di raccogliere ogni giorno una quantità di bellezza sempre differente, e pressoché illimitata.
Le gite, la natura, i viaggi, lo sport e tutti i piaceri della vita: a saper aspettare, torneranno più giovani e veri di prima. Ho capito che le due cose più intelligenti fatte nella vita sono state andare a vivere da sola in una casa-studio tutta mia, e di aver rinunciato ad ogni tipo di legame per amore della pittura e della libertà. L’arte e la natura in sublime pariglia, guidano la mia esistenza; la esaltano, la elevano e la confortano in ogni circostanza. Non avrei alcun senso senza questa linfa, che predispone per me condizioni di rarefazione, di pace e di benessere illimitati. Ho dato al mio tempo curve più ampie, luci morbide, voci più basse. I miei giorni erano ‘La camera di Van Gogh ad Arles’; sono diventati un interno di Vermeer. Ho imparato a godere anche dei pochi metri fatti a piedi per andare al supermercato o dei cinquanta minuti a pedalare sui rulli al balcone, davanti ad un paesaggio fatto di case silenziose e di ciliegi in fiore. Pensare di dover tornare al ritmo di prima un poco mi dispiace, e voglia adesso ne ho poca; mi parrebbe tutto così faticoso, nel rimestare di un continuo déjà-vu.
Ho trascorso gran parte delle ore di confino in giro per casa da sola, osservando una ad una le mie stanze, come sono arredate e da cosa. L’autoritratto che non ho mai dipinto è tutto qui, e non l’avevo mai visto. Molte cose non mi sono mai piaciute, ma al punto in cui sono faccio prima ad accettarle che curarle. Fin da ragazza, se una cosa non mi piaceva la disponevo in armonia con altre migliori, affinché si confortasse e prendesse fiducia. Molto andava pulito, ridimensionato, eliminato o sistemato in posizioni differenti, ma l’ho lasciato lì com’era, convincendomi nel tempo che, in fondo, anche per via della sua imperfezione aveva trovato un assetto così eloquente. Tutto in me sembra più di quanto non sia. Ma sono felice, perché in ogni situazione critica della vita piccoli miracoli mi hanno salvata in tempo dal peggio, ridimensionando le mie prefigurazioni più amare. Piccole cose, niente che abbia mutato radicalmente il corso degli eventi: una mano che mi ha tirata indietro se mi ero sporta troppo sull’orlo del fosso. Ed io a queste piccole fortune sono affezionata: ai piccoli raccolti, alle grazie minime, alla fedeltà di minuscole abitudini domestiche che mai svenderei per un solo, immenso momento di buona sorte.
-Mi muovo lentamente, ritrovando in questo ritmo nuovo la libertà del respiro lungo. Nella lista della spesa c’è scritto: ‘Vino bianco, pasta corta, lampadine’: niente di necessario. Faccio amicizia con quanto tengo in casa, ne ho rispetto, me lo faccio bastare. Quando proprio sono a corto, esco e provvedo. Sistemo la pasta nei pensili in cucina: prima i pacchi grandi, poi i più piccoli. Passo in salotto a sistemare la libreria: ordino i libri per altezza in ordine decrescente, eliminando quelli che col tempo hanno smesso di rivolgermi la parola. Pulisco i ripiani dalla polvere, poi passo ai cassetti in basso, colmi di foto, anche quelle di sistemare. Passandole in rassegna, contabilizzo il mio passato. Mi manca un poco la ragazza che ero; la sua sfrontatezza, la sua furiosa incoscienza, il suo coraggio che negli anni a volte si è spento, lasciando posto a ragionevoli dubbi e a troppo pensiero intorno alle cose. Trovo anche le centinaia di foto scattate nel tempo al luogo in cui vivo, soprattutto alle strade di campagna, con dettagli di fiori, foglie, alberi, piccoli animali, campi e boschi: sapevo che un giorno mi sarebbero servite. Riesumo le lenzuola del corredo dalla cassapanca; quelle bianche ricamate, mai utilizzate in trent’anni per paura che si rovinassero. Ci preparo il letto per la notte: meglio morire rovinate che vergini. Progetti per il futuro: scongelare i progetti interrotti. Lasciar maturare al buio lo zucchero della frutta, affinché una volta pronta la polpa sia irresistibile. Nel frattempo, occuparsi di tutto ciò che è bene eliminare, cose e persone in egual misura. In ogni caso, non accanirsi troppo sulle cose: ordine ossessivo, compulsioni maniacali e micro sistemazioni possono lasciare un penoso senso di incompiuto: è quello il segno che non era lì che bisognava ordinare.
-Fino a tre mesi fa, la domenica mattina sotto il mio balcone passavano flotte di ciclisti; sentivo gli schiamazzi con cui si salutavano, il suono dei raggi delle ruote a folle, e mi veniva un brivido di gioia, perché sapevo che di lì a poco sarei uscita anch’io. Dal mio balcone vedo le curve della Laura, e anche lì era tutto un brulichio di ciclisti che salivano o che scendevano, e di motociclette che si avviavano verso il mare. Suonavano le campane delle chiese, passavano auto e motorini, uomini e donne correvano per strada. Oggi il silenzio è completo. Le strade la domenica sono deserte, sotto casa e a perdita d’occhio. Un elicottero dei carabinieri sorvola la zona. Gli animali si sono ripresi i propri territori: sento il canto di uccelli mai ascoltato prima d’ora. Tutto brilla nell’assenza degli uomini, come immagino splendesse agli inizi della Creazione.
Da sportiva, non avrei mai pensato di poter desiderare così ardentemente il mal tempo durante il week end. Una malinconia strana si insinua giorno dopo giorno, a fitte sottili e continue, come aghi in una bambola di pezza. Di fatto, non posso dire di stare male: ho una bella casa – studio, in cui vivo con due creature che amo. Ci sono l’acqua, il riscaldamento, la corrente, connessione internet illimitata, e poi cibo, vettovaglie, libri, fotografie, attrezzi ginnici. Ho persino una dignitosa scorta di cioccolato fondente per i momenti di sconforto. Mi viene da pensare ai miei nonni in tempo di guerra, e se immagino di dover vivere un giorno solo ciò che vissero loro per mesi, non ce la faccio e mi vergogno di questa mia malinconia, che neppure ha la dignità di una vera e propria pena. Non mi mancano le cose che facevo prima. Penso anzi a tutte le volte che sono uscita di casa inventandomi commissioni del tutto superflue o appuntamenti con persone che non mi interessavano, pur di cambiare aria. Per tutte quelle uscite sprecate, ecco ora una pari quantità di occasioni proibite. Capisco allora cos’è questa mia malinconia, che forse è un po’ pure quella degli altri: è la perdita della libertà, anche quella di uscire senza ragione, ma di poterlo fare decidendo in autonomia. È lo stare stretti in uno spazio che rischia di diventare estraneo per eccesso di familiarità. È la paura che, di qui a poco tempo, anche le cose in cui avremmo ritrovato utilità e piaceri domestici perderanno il loro smalto, lasciando la ruggine di una grata troppo stretta. Ma la causa è giusta e chiama tutti noi a superare la prova. Dal pipistrello killer al complotto macroeconomico, ci si perde ogni giorno in un caleidoscopio di ipotesi, dati, previsioni che lasciano attoniti ed impotenti. Ma neppure possiamo insabbiarci aspettando che la tempesta passi. Rifiutare l’informazione è ignoranza dolosa. Certo, affronteremmo molto meglio tutto questo se conoscessimo la verità. Ma la verità, si sa, non esiste. E così, pur avendo tempo, passa pure la voglia di fare le cose rinviate da anni. Le telefonate tra i pochi amici che ci si accorge di avere, sono bengala lanciati dai superstiti di una catastrofe nel deserto. Poi, chiuse le telefonate e i libri, mi metto a pensare a a tutte le persone costrette in questi giorni a stare insieme entro le stesse mura: quante famiglie scollineranno indenni, e quante esploderanno? Quante coppie capiranno di aver fatto la scelta giusta, e quante, finito il peggio non vedranno l’ora di separarsi? Quante persone sole si tempreranno al freddo tonificante di una condizione estrema? E quante invece soccomberanno al peso di fragilità irrisolte? Penso anche, e soprattutto, a tutti coloro che in questi giorni muoiono da soli come in guerra, sepolti in fosse comuni che non prevedono né carezze estreme né addii. Potrei continuare, e c’è poco da stare allegri. Ognuno cerca di andare avanti come può: c’è chi calca la mano sul dolore proprio e su quello degli altri, e chi preferisce offrirsi ed offrire momenti di svago e di leggerezza. Mi colpisce però un dato: parlando con gli amici, mi accorgo che a nessuno manca il ristorante, il centro commerciale, la libreria, il cinema, il viaggio, che offrono prodotti tranquillamente reperibili in casa o in rete, o di cui molti possono addirittura fare a meno. A tutti manca invece una cosa: la possibilità di passeggiare in mezzo alla natura, specie ora che è iniziata la primavera. Non mi pare un dato assurdo o irrilevante, al contrario. Storpiatura, dissacrazione, negazione, bruttezza, fragilità, malattia, individualismo e noia in ogni aspetto delle nostre esistenze, sono forse proprio la conseguenza della separazione avvenuta da troppo tempo tra uomo e natura, per la quale si è perso quel sentimento unitario di armonia, di letizia, di mistero e di entusiasmo che sorge davanti alla bellezza, capace di traghettarci da una dimensione estetica ad un’esperienza estatica: l’unica in grado di garantire elevazione e speranza. Perso questo primitivo contatto, eccoci tutti affrontare una sorta di Odissea senza Itaca.
Al di là di considerazioni sentimentali, un fatto è certo: l’emergenza in corso non svela solo l’impotenza di ogni individuo, ma mette a nudo tutte le fragilità e i limiti delle grandi potenze. Abbiamo fallito, e miseramente. La pandemia ha mostrato con impietosa evidenza quella che Federico Rampini definisce “la ritirata della globalizzazione”, rendendo visibile la vulnerabilità di poteri economici interconnessi e di catene produttive troppo estese, dove basta un incidente più o meno serio in punti strategici per paralizzare tutto e tutti. E dove alla fine, a contare per ciascuno non sono né poteri economici interconnessi né catene produttive troppo estese, ma che la notte passi, e che se ne esca vivi.
-Incappati in una crisi emergenziale largamente imprevista, ci ritroviamo a fare di necessità virtù, tornando ad apprezzare le azioni minime, la lentezza, gli insegnamenti del poco. Tutto sommato ci stiamo comportando bene. Nel mio paese (Montoro – AV), alle 18 il centro diventa una Piazza di De Chirico. Molti escono di casa da soli, si mettono in macchina coi finestrini chiusi, indossano la mascherina e fanno lunghi giri nei paraggi, per vedere se anche altri escono di casa da soli, si mettono in macchina coi finestrini chiusi, e indossano la mascherina per fare lunghi giri nei paraggi. Tutti a distanza, coperti, furtivi, sfuggenti. Anche tra amici. Dopo una certa ora, dileguate le presenze umane, persino le macchine parcheggiate in strada rispettano la distanza minima imposta per decreto. La vita ci è cara, molto più di quanto crediamo. Ed è cara in questi giorni soprattutto ai vecchi, che nella logica dei grandi numeri sarebbero i primi, in casi estremi, a dover essere sacrificati. Vanno per strada da soli o si chiamano dai balconi per un saluto, e li vedo amarla questa vita con una disperazione tenera e luminosa, che commuove. Si cambiano abitudini: il viaggio si fa nei paraggi di casa, che si scoprono ignoti. Le azioni si dilatano, il respiro si fa lungo, le conversazioni non si affrettano. Si rispetta la casa, il suo calore fedele e tutte le cose che al suo interno noi siamo. Se non siamo stati contagiati e i nostri cari sono in buona salute, in momenti di oggettiva difficoltà si può approfittare degli effetti collaterali della crisi che, come etimologia insegna, aiuta a discernere, a fare selezione, a rivedere la gerarchia delle priorità nei comportamenti e nelle relazioni; ma pure a concedersi qualche innocua vanità utile a distrarsi, e a mantenere un indispensabile quota di ottimismo. Osservo i miei due piccioni in amore, trascorrere ore a tubare in una cassetta in cui stanno stretti l’uno sull’altra. Si adattano loro a vivere in uno spazio minuscolo, non vedo perché non possiamo farlo noi, a scoprire quanto immensi sono il vicino e il poco, e come alla fine sono sempre tenerezza e bellezza a salvare. Immagino che nelle grandi città lo scenario sia metafisico, alienante, talvolta spettrale. Ma in un paese circondato da campagne e colline com’è il mio, il silenzio di questi giorni lascia in giro una luce calda che cura. I pochi passanti si incrociano a distanza, salutandosi con una sollecitudine affettuosa. Si sentono nell’aria solo i canti merlettati degli uccelli e delle loro covate. Non si vive solo di paura. Il panico porta pericolosamente a galla fragilità insospettabili anche nelle persone che credevamo più forti. In momenti di sacrificio e di difficoltà, fa dunque bene orientare l’anima alla bellezza, in tutte le sue forme. Per forza di cose, ognuno trova nuovi assetti in ciò che gli è più caro: c’è chi resta in casa a curare gli affetti, chi legge, chi rivede vecchi film, chi studia, chi riscopre la Fede. Io faccio quello che ho sempre fatto: vado a piedi nei paraggi da sola. Per me non esiste niente di superiore alla natura; in essa mi riconosco e mi ritrovo quando mi perdo. La natura è meravigliosa sempre, sia quando nutre che quando uccide. Talvolta atterrisce, incarnando le esaltanti contraddizioni di cui è fatta la vita, mettendoci dinanzi a forze che in nessun modo siamo in grado di governare. Ma accanto all’esaltante tormento di cui è portatrice, sa pure rasserenare e consolare, con la grazia maestosa delle sue fioriture, delle stagioni, dei suoi cieli mutevoli, dei suoi stupefacenti spazi. La bellezza della natura appartiene a quella categoria che Kant definiva ‘bellezza libera’: non abbiamo cioè alcuna aspettativa di come debbano o possano essere una nuvola, un torrente, una collina, e per questo ci disponiamo liberamente dinanzi ad essi, osservandoli e godendone per quello che sono. Se solo riuscissimo a fare lo stesso col resto della nostra vita, quanto dolore senza frutto ci risparmieremmo. Per via di metafora, riflettiamo sul fatto che, in viaggio in una città nuova, ad affascinarci non sono i centri direzionali, ma il centro storico, la strada stretta, la casa abbandonata, il selciato scomodo, la taverna con pochi tavoli. Ci piace un po’ di disordine e persino un poco d’emergenza, perché più vicini al nudo della vita. Delle statue ai musei, ci spaventano talvolta quelle ferme nel sottozero della perfezione, mentre amiamo quelle che conservano nell’impronta delle dita il gesto rapido della mano, ricordando il verso di Mark Strand che dice: “Cammino nel poco di luce che c’è, insufficiente sia alla cecità che a veder chiaro ciò che verrà.”
-Ogni giorno una versione, un cambiamento, una verità dichiarata o nascosta. Non è facile orientarsi nel buio: si va a tentoni, si sbatte e si inciampa, e rialzandosi si sbaglia l’appiglio. Ascolto ogni mattina un telegiornale, e francamente non ho idea di quando scollineremo. Per qualche stolto accanimento penso sempre bene di tutto, convinta che in fondo mai nulla verrà scalfito, che ogni cosa tornerà rinvigorita dalla potatura. Ma quante cose saranno cambiate definitivamente? E in che direzione? Bastano davvero pochi mesi per decapitare le vite di tutti e le condizioni di un intero Paese? E se questo dovesse accadere, cosa concluderne? Dopo l’ultima guerra del secolo scorso, la ricostruzione fu sostenuta da un entusiasmo potente perché c’era una direzione chiara verso cui andare, o almeno verso cui non si poteva e non si doveva più tornare. Ma oggi? Penso che il fallimento dei massimi sistemi sia plateale e sconfortante. Globalizzazione, sistemi economici interconnessi, guerre biologiche che annientano senza causare crolli di case, di strade, di palazzi, di fabbriche, e macro interessi più o meno occulti hanno portato l’umanità ad una deriva che pare senza speranza. Molti in questi giorni fanno il pane in casa; sui social è un continuo postare foto e ricette. In fondo non è necessario; i supermercati ne vendono di tutti i tipi, e certo non manca. Forse allora, è il segno di una civiltà che sente il bisogno di tornare verso modelli più autarchici, più raccolti, più controllabili, fatti anche di coesione sociale, di calore condiviso, oltre che di sacrosante cose semplici ed essenziali. Certo il sentimentalismo non serve, ma tante volte una strada possibile riesce ad indicarla.
-Ciascuno in questi giorni racconta la propria esperienza. Ci sono storie dure, che ricevono la nostra vicinanza e tutto il nostro sostegno. Ma ci sono anche, per fortuna, situazioni più lievi, in cui la regola del rigore riesce a produrre effetti addirittura positivi. Dal punto di vista personale, questo momento si sta dimostrando costruttivo per molti aspetti. Se è vero che ho dovuto rinunciare doverosamente alle mie libertà extra domestiche, è anche vero che, per esempio, ho riscoperto il piacere del telefono rispetto ad una chat, e della scrittura su carta rispetto alla tastiera. I libri ci sono sempre stati e fedelmente sono rimasti. Si ha voglia di sentire persone con cui normalmente prima neanche ci si scambiava un messaggio, così come si riceve l’interesse di amici che si stimano, ma con i quali per una ragione o per un’altra non ci si sentiva se non di rado. Persone di cui si rispettava l’intelligenza, nel momento della fragilità hanno mostrato una natura meschina ed amara. Altre invece, che si sottovalutavano, si sono rivelate di rara luce. Ed ancora, impegni ai quali prima non si prestavano né tempo né attenzione, reggono adesso il peso di ore. I giorni si somigliano, il tempo frena. Le azioni si dilatano come elastici allentati, che a tirarli non si spezzano. Dettagli minimi osservati nel paesaggio intorno casa, sostituiscono dignitosamente un viaggio. Si impara che tante volte la felicità non è fare ciò che si desidera, ma fare al meglio quello che si può fare. È potere di ogni tempesta traghettare dalla catàbasi alla catarsi. Io sono serena ed ottimista per natura, e non mi annoio. Ma sopra ogni cosa, sono curiosa di sapere, quando tutto ciò sarà finito, quali rami del mio albero saranno caduti a causa della gelata, chi e cosa desidererò incontrare e fare, dove vorrò andare, come tutto questo mi avrà trasformata, se per poco o per sempre, ed in quale direzione.
Se non siamo stati contagiati e i nostri cari sono in buona salute, in momenti di oggettiva difficoltà come questi si può approfittare degli effetti collaterali della crisi che, come etimologia insegna, aiuta a discernere, a fare selezione, a rivedere la gerarchia delle priorità nei comportamenti e nelle relazioni; ma pure a concedersi qualche innocua vanità utile a distrarsi, e a mantenere un indispensabile quota minima di ottimismo.
Ma una cosa su questa situazione voglio dirla anch’io. L’hashtag IORESTOACASA lo sostengo e lo pratico senza riserve, aiutata dalla mia naturale misantropia. Accolgo persino con giubilo la stretta radicale imposta dal Governo, che limita a lungo termine la quasi totalità dei nostri spostamenti e delle nostre abitudini sociali ordinarie. Se serve a prevenire la catastrofe sanitaria, ben venga. Il punto è un altro: perché si è giunti ad una soluzione così estrema? Perché gli italiani sono un popolo di faciloni spavaldi convinti che nulla di serio gli può mai davvero accadere, e se pure dovesse accadere gondole, sole, mandolini e pacche sulla spalla li salveranno. Perché l’italiano, mediamente, è un egoista di bassa lega, un superficiale maldestro, un esibizionista goliardico privo di qualsiasi senso di responsabilità personale in fatto di questioni pubbliche. Perché una buona parte dei nostri giovani è una pletora di dementi immaturi vocati solo a frivolezze e a sensi di sfida lanciati non verso traguardi importanti da raggiungere nella vita, ma ad imprese come il selfie sull’orlo del precipizio o all’esultanza barbara per il divieto appena violato. Una gioventù mediocre ed ignorante, priva di curiosità sane, incapace di attenzione e di cura, cresciuta alla luce di miti friabili come il divertimento h24 e la bellezza flawless forever; tutto subito e niente a lungo andare. È sempre difficile capire dove sta il giusto quando si oscilla tra due estremi. In Cina vige la dittatura, non esiste libertà, si vive per lavorare, ma questo eccesso di rigore ha consentito di arginare in maniera rapida ed efficace un problema che da noi, giunto in forma più lieve ha proliferato molto più rapidamente ed in proporzioni – in rapporto alla popolazione – molto più drammatiche, con la velocità di mosche su un cadavere. Quale cadavere? Quello del buon senso collettivo, spentosi serenamente tra la disaffezione dei suoi cari.
Foto: Eliana Petrizzi