Paesino solitario

Con la bella stagione, carovane di gitanti popolano i paesi più remoti. I bar e i locali sono felici per i buoni affari, e per una quantità di gente che da quelle parti non si vede nemmeno durante la festa del Santo Patrono. Quando la festa finisce, i vecchi si riprendono le panchine davanti al bar e il vento tra le case in vendita, maledicendo la spazzatura in strada, i giovani alcolizzati, le forestiere sbandate, il sindaco che ha permesso lo scatafascio, e tutti i soldi buttati che si potevano spendere per cose più utili. Durante la festa si preparano piatti tipici, si siede su balle di paglia, si rispolverano i canti che tenevano in piedi nei giorni di fatica. Si parla del restauro dei centri storici, dell’imprenditoria giovanile fondata sul recupero degli antichi mestieri e sulla valorizzazione delle eccellenze locali. Si scommette, insomma, sul potenziale virtuoso di un passato che non torna. I giovani che si organizzano in associazioni culturali per promuovere iniziative a sostegno del territorio, credono profondamente in quello che fanno, ma loro per primi sono costretti a studiare o a lavorare fuori. Siedo nella piazza di un paese di 200 abitanti scarsi. Ho salutato persone che raccontano solo di malattie, di loculi prenotati al cimitero, di morti recenti e di cose che non vogliono dividere con nessuno. Troppi sono andati via, chi è rimasto ha messo su famiglia, ma è dura. Tra le casupole e le cantine di un tempo sono state costruite case nuove; le vecchie, chi è partito le ha ristrutturate per affetto, ma stanno sempre chiuse. Chi vive altrove, dov’è nato torna solo pochi giorni all’anno. Qui durano poco la pace, l’aria buona e la nostalgia dei tempi andati. Di fatto, nei ruderi del centro storico si sono consumate esistenze durissime. C’era però a quei tempi qualcosa che oggi manca: il rispetto del poco e il senso del condiviso. Ecco da dove nascono il rimpianto per queste pietre crude, per le stanze strette, per i cocci di terracotta tra le macerie, insieme alla solenne bellezza che le rende degne di un viaggio duro, tra vie deserte e montagne brulle. In certi paesi del Sud, le donne hanno ancora nel viso i tratti descritti dalle pagine e dai dipinti di Carlo Levi. I ragazzi e le ragazze di quegli anni oggi sono vecchi affidati a badanti dai figli lontani. Chi non si è sposato non ha figli, né nipoti né parenti, né più un vicinato. A scandire le giornate sono una messa se il tempo è buono, o il ritiro di pensione e delle medicine. Vivono in case sporcate dal caos di chi non ha più voglia di curarsi di niente, accanto a una televisione o a un telefono che spesso non funzionano per guasti che nessuno è in grado di segnalare, senza computer né cellulari. Se gli dici: ‘Ma come fai se ti succede qualcosa? A chi chiami?’, la risposta è: ‘Se mi succede qualcosa mentre il telefono era rotto, vuol dire che così dovevo morire’. Nei momenti di silenzio, quando nessuno sa più cosa dire, tengono gli occhi tranquilli in un punto lontano della stanza, come gli uccelli vicini alla morte.

L’Italia ha più paesi che città, molti vecchi di secoli. Per rianimare questi luoghi ci vorrebbero miliardi di euro, che lo Stato non possiede nemmeno per risanare le cose laddove la gente ha deciso di trasferirsi quando questi paesi ha dovuto lasciarli. La lista delle cose che si potrebbero fare è lunga e risaputa; quella delle cose che si possono fare invece è corta, e tutto va in malora. Tonino è appena tornato dalla farmacia, che sta in un paese a 18 chilometri. L’ospedale è stato chiuso e il più vicino è a 86 chilometri. Quelli che sono emigrati in America negli anni ’40 qui non vogliono essere nemmeno sepolti, perché nessun figlio verrà mai a trovarli. Di porta in porta, scorre un composto corteo di “Vendesi”, di quelli dove nessuno piange, perché il morto si è spento serenamente circondato dall’affetto dei suoi cari. Queste case non interessano a nessuno, perché lontane da ogni cosa e troppo vicine tra loro. Il cimitero è il luogo che fa più abitanti dei residenti, ed è pure il posto dove viene meglio chiacchierare della vita che resta. Eppure, il buono che c’è vuole stare in piedi. C’è chi ha creato una squadra di calcetto per i ragazzi del posto, e nel tempo libero aiuta gli anziani rimasti soli in casa. Di sera, la gente si tiene unita davanti al bar e fuori le porte. I giovani si sposano e fanno figli, nella speranza che non partano, o di partire un giorno insieme a loro. Quando vengo in paesi come questo, trovo sempre qualcuno che mi dice: “Mi raccomando, se devi scrivere qualcosa di questo posto, scrivi cose belle”. Ma quali sono le cose belle di un paese? La gente che ci abita ama sentire che quello in cui vive è un borgo dall’aria pulita, dal cibo sano, dalla vita semplice e dai valori preservati, abitato da una popolazione generosa che si prende cura prima dei vecchi, poi dei giovani che qui hanno avuto la sfortuna di nascere e la fiducia di restare. Tutti aspetti di cui si nutrono la vena degli artisti e il turismo romantico praticato da chi vive in città, ma che in luoghi come questo non verrebbe a vivere mai. La gente dei paesi vive tranquilla, invecchia senza rancore e muore senza paura. Ma sa bene che la troppa solitudine a volte è peggio della paura di morire; che la distanza dai centri, l’impossibilità di scegliere e la mancanza di confronto rafforzano a volte solo ottusità e pregiudizi. Sanno bene che un paese è felice se ci sono servizi, collegamenti, diritti tutelati, scambi culturali, una sanità che funziona, una burocrazia svelta e soprattutto lavoro, tutte cose che in troppi paesi mancano. Alla fine di questi miei viaggi non so mai se arrendermi o sperare. Carmelina, 91 anni, pulisce i fagioli fuori casa. Mi parla senza alzare mai lo sguardo dalla cesta. Poi mi fissa con un viso tenero e dice: ‘Noi questo paese cerchiamo di curarlo come i nostri malanni, ogni santo giorno. Poi però, si sa, uno guarisce, un altro muore’.