Di incidenti, malattie ed altre sventure.

 

Chi prende un treno veloce pensa solo alla propria meta, dimenticando quella degli altri e tutte le cose lungo il percorso. Gli interregionali attraversano i paesi e si fermano spesso; io li amo per tutto ciò che osservo: per il vecchio che sale senza biglietto, per la signora che fa visita ad una parente con una busta di mozzarelle in mano, per gli indiani stanchi e mansueti, che in estate vanno o tornano dalle spiagge. Durante i miei viaggi in giro per il mondo, ho ricordato sempre poco quelli dove tutto è andato bene. Ho invece sempre rimpianto con più nostalgia quelli in cui un accidente mi ha ricordato la mia impotenza dinanzi ai progetti della vita. Questi treni, questi viaggi dicono: ‘Lascia la via principale, e vai per sentieri’.

L’umanissima debolezza, quando ci si ammala o ci capita un incidente, di nascondersi, di non dire o di mentire, come se la falla fosse un crimine o un’onta, va combattuta e sconfitta. Il fatto è che – diciamolo – di pietà, compassione e soccorso la natura se ne infischia altamente. A lei interessano i forti (non i migliori), in grado di continuare la marcia in avanti della vita. I deboli sono zavorre di cui liberarsi, e una traccia di questo retaggio in noi è purtroppo rimasta. Lo spiega il fatto che verso un malato o un disabile il nostro atteggiamento istintivo è di allontanarcene, quasi a non esserne contaminati. Bisognerebbe invece diventare quel corpo; diventare soprattutto la perdita di speranza che uccide spesso più della paura di morire. E bisognerebbe pure dimenticare il mal tempo all’orizzonte, prendersi il poco di sole che arriva ogni giorno, accorgendosi che esistono momenti di allegria molto più frequenti di quanto non si creda. Non bisognerebbe dire una parola, non un’obiezione, e se si è stati fortunati, si dovrebbe ringraziare per la pienezza di un corpo vivo, per occhi che guardano, passi che vanno e mani che stringono. Di fatto, prima o poi le prove arrivano per chiunque, secondo un criterio di perfetta democrazia che prescinde da età, sesso, cultura, bontà, cattiveria, ricchezza e povertà. Certo, considerando l’ipocrisia del genere umano e le sottili crudeltà di cui sono capaci soprattutto i commiseratori, è opportuno fare attenzione ai nostri confidenti. Molti incarneranno la frase di La Rochefoucald, che dice: ‘Nell’avversità dei nostri migliori amici, troviamo sempre qualcosa che in fondo non ci dispiace.’ Troveremo compagni inattesi, ma pure molti che credevamo vicini, le cui cattiveria e superficialità saranno pari solo alla loro stupidità. Per il resto, è bene ricordare che nei momenti cruciali della vita si è sempre soli. La prova è un corpo a corpo con noi stessi, separati dagli altri, che pure in buona fede e con tutto l’amore ci stanno accanto. Quando ci capita un malanno o un incidente più o meno grave, la prima domanda che ci si pone è: ‘Perché proprio a me?’ Nessuno si chiede invece: ‘Perché non a me?’ Siamo forse migliori degli altri? Nodo karmico? Crash psicosomatico? Vita malsana? Vita ortoressica? Idiozie: incidenti e malattie sono fatti su cui ha poco senso discutere. Provare ad affrontare a meglio il viaggio, allora, è il massimo che si può fare. Se c’è una cosa che la difficoltà ti insegna da subito è fare selezione, per lasciare posto solo alle cose e alle persone cui è essenziale dedicarsi. Accade pure che se già prima si ringraziava per ogni momento presente, dopo, ogni cosa diventa ineluttabilmente preziosa. A nessuno appartiene il momento prossimo, ma la salute, nella sua cecità ce ne toglie consapevolezza. Un acciacco, un incidente o un malanno, al contrario, vengono a ricordarcelo senza tanti giri di parole. Con una sensibilità mai sperimentata prima, l’aria che respiri adesso è immensa, i tuoi polmoni neanche bastano; il tuo grazie per la pienezza della vita ti sembra ancora troppo piccolo, per quanto è glorioso quello che ogni giorno ti viene offerto, e che con fiduciosa armonia si prende cura di te. Un fatto è certo: se la malattia è cambiamento, il cambiamento non è mai una malattia. In ogni momento difficile, personalmente ho sempre trovato ottimismo e speranza guardando gli altri. Soprattutto nei luoghi molto affollati, il caleidoscopio della varietà umana è un insegnamento stupefacente di misura e di pace. Mi hanno aiutato le persone più brutte e persino le più abiette, e naturalmente tutte quelle migliori di me. La mia vicenda mi è apparsa così ogni volta qualcosa di piccolo, necessaria a suo modo alla completezza del mondo. Ogni cosa esiste, curata e guarita dal puro fatto di esistere; in questo va cercata la misteriosa pienezza del suo valore. Raccogliere e sviluppare il potenziale edificatore del crollo. sfruttando soprattutto gli effetti benefici di un malanno: ce ne sono più di quanti non si possa sospettare. Ci accorgiamo così che il tempo che prima ci pareva avaro, è in realtà vasto e generoso. Ne abbiamo tanto, per assetti impensati e nuove messe a fuoco. Il tempo adesso serve a noi: non siamo importanti, siamo fondamentali. Deve darci forza questo: che sempre nella vita le cose che ci sembrano immense, di solito sono solo poco più che grandi.

 

Certe donne

Abuso dell’immagine femminile, sfruttamento, violenza privata, discriminazione e stalking, sono temi su cui non si può e non si deve smettere mai di discutere. Ma per una volta, vorrei andare controcorrente parlando di una razza a rischio di estinzione, quella degli uomini, a causa di un tipo specifico di figura femminile che ha tracimato ben oltre il buon senso. “Macchiamento” dell’immagine femminile e sfruttamento delle donne sono le espressioni più ricorrenti ovunque si parli del corpo e del valore simbolico della donna. Di “macchiamento” della donna ha però senso parlare ovunque dominano dittature assolute, dove le donne vengono mortificate da una barbarie che non trova alcun tipo di giustificazione né culturale né religiosa. Sono passati decenni dalle rivolte femministe; la donna ha conquistato autonomia pensante, dignità personale, diritti lavorativi, politici e giuridici; un’indipendenza culturale ed economica che le ha consentito di uscire da matrimoni sbagliati e di separarsi da compagni violenti. E tuttavia, ecco oggi molte donne incapaci di autentica femminilità, di pazienza, di accoglienza e di ascolto; incapaci di rispetto del proprio corpo, che da custode misterioso della vita è diventato il vessillo di libertà sessuali sguaiate. Dopo tante lotte per la parità dei ruoli e un faticoso riconoscimento del potere intellettuale e culturale nell’acquisizione del merito, ecco troppe donne fare a braccio di ferro con gli uomini, in una disputa da cui ciascuno esce infine sconfitto. Noi donne abbiamo dimenticato che la nostra rivoluzione non ha nemmeno un secolo, contro millenni di fossili culturali sedimentati nel DNA collettivo, che resta purtroppo maschile. Faremmo bene a stare di più con loro, perché siamo due mondi paralleli e necessari, perché se da milioni di anni esiste un cielo e una terra, l’acqua e il fuoco, una radice e una chioma, un motivo ci sarà. A me gli uomini di oggi fanno tenerezza. Immaturi, frivoli, irresponsabili, mammoni: ma siamo sicure che sia solo colpa loro? Siamo brave a condannarli negli impietosi confessionali tra amiche. Forse, però, se troppi ci temono, se si depilano le sopracciglia, se qualcuno ha addirittura un principio di cellulite, se ci vedono come mostri da cui è meglio fuggire dopo la prima scopata, la colpa è anche nostra. Potremmo far capire loro cosa vogliamo con meno isteria e meno rozzezza, rispettando quella che è la peculiarità preistorica di un uomo: l’illusione di essere il più forte. Potremmo coltivare i loro pregi reali, di cui molte di noi sono prive: concretezza, solidità e una semplicità di fondo che, quando non li fa mediocri, li rende certo meno pericolosi di noi. Degli uomini non possiamo fare a meno, e sperare in un pianeta futuro abitato da una razza di sole donne, francamente mi deprime. Gli uomini ci servono per essere donne, non per somigliare a loro. Non l’abbiamo mai voluto, e non si capisce allora perché oggi troppe di noi si accaniscono in questa direzione. Rispetto a un uomo, una donna ha di certo più determinazione, più spirito di sacrificio, capacità multi-tasking, maggiore sopportazione, istinto alla cura delle cose, sensibilità, intuito, scaltrezza e gestione degli impulsi animali. Ci sono azioni che le donne hanno sempre compiuto e che conservano un valore positivo di calore, di protezione e di unità. Preferisco incontrare le donne ogni giorno e nei momenti più disparati, che andare con loro a certe patetiche feste dell’8 marzo, in un locale kitsch pieno di femmine attempate o morte prima del tempo, che si illuminano davanti al belloccio pagato per l’occasione. Le senti civettare tra loro snocciolando un’imbarazzante catena di doppi sensi, con la voce di chi viene da anni di fame. E i maschi, intanto, dove sono? Se ne stanno tra loro, felici di saperci lontane, come naufraghi sotto una tenda mentre fuori piove.

 

JANNIS KOUNELLIS – a cura di Ludovico Pratesi

p1260679-1068x801

Ripropongo di seguito questo testo – pubblicato  su ARTRIBUNE in occasione della scomparsa di Kounellis – che merita un’attenta lettura.

Jannis Kounellis era un umanista, un artista che non ha mai avuto paura di esprimere le proprie idee. Ludovico Pratesi lo ricorda con un testo, intitolato “Il dubbio, l’arte e la passione civile”, che oggi appare profetico, firmato da Kounellis e pubblicato sul terzo numero di “Micromega” nel 2004.

kunellis

COSA VUOL DIRE GLOBALIZZAZIONE

Io ho visto svolgersi gli avvenimenti dietro le finestre del mio studio, i messaggi lanciati dai pirati dentro una bottiglia non mi soddisfano. Preferisco, se dopo un viaggio ho qualcosa da dire, sussurrarlo nell’orecchio di qualcuno, magari in una taverna, aspettando con ansia un segno di approvazione anche da parte di un artista morto da secoli perché io intuisco dai suoi quadri se il mio discorso gli piace oppure no. Quando viaggio penso a Rimbaud in Etiopia. Nel mondo della globalizzazione non hai una meta precisa, e quindi non viaggi perché non hai un destino. È bello andare ad Hong Kong, ma è terrificante pensare di tornarci dopo una settimana senza avere almeno una persona da incontrare. Oggi ci si sposta in maniera convulsa da una bottega all’altra, come i venditori ambulanti degli anni Cinquanta. La globalizzazione è come un lago del quale si attraversano le rive con facilità: si pensa che non esistano più i paesi e si sia finalmente realizzato il sogno di fare scomparire le differenze che anche lontanamente ricordano un conflitto. Intanto, in America c’è un pittore come Jasper Johns che, tempo fa, ha dipinto la bandiera americana che indica un centro reale. La globalizzazione non mette in discussione questo centro, e riduce tutto il resto ad una desolante periferia. Io sono abituato a considerare un pittore come un protagonista: la condizione dell’artista definita da Picasso quando dipinge Les demoiselles d’Avignon in un piccolo studio a Parigi. Considero quel quadro rivoluzionario a livello linguistico: non indica un lago ma un oceano, e non si può non amare l’oceano. Gli impressionisti erano nomadi, si spostavano dappertutto per inseguire un sogno di libertà, quello di abbandonare lo studio e di dipingere all’aria aperta. I cubisti hanno fatto il contrario, sono tornati nello studio per ritrovare la libertà di inventare una nuova lingua pittorica. Ma sia gli impressionisti sia i cubisti indicano un pensiero forte. Oggi invece il pittore è l’ultimo anello di un’espansione di debolezza, voluto anche da una certa politica di sinistra, che ha voluto questa perdita di peso. Mentre una volta il quadro centralizzava l’interesse culturale, oggi è l’istituzione burocratica che offre la centralità, ma questa idea globale di pluralità allontana la critica, ed è un discorso nefasto nascosto sotto un’apparenza libertaria. In questo momento dove anche la parte imprenditoriale avverte che è nella costruzione di cose che si disegna il futuro (il che è una critica alla società dei servizi) il ritorno alla volontà di costruire e la fine della dispersione non è un sogno che finisce, ma un orizzonte che si apre.

ORIENTE OCCIDENTE

Nel Vicino Oriente c’è un conflitto ormai cronico fra gli ebrei, nei confronti dei quali abbiamo un debito enorme. Non bisogna mai scordarselo, e i palestinesi sono un popolo martirizzato alla ricerca di una terra possibile. Questa condizione ha paralizzato ogni investimento culturale verso quest’angolo del Mediterraneo. Per quanto nel porto di Alessandria siano nate delle grandi personalità come Kavafis, Ungaretti e Marinetti, non si può dimenticare che a Salonicco è nato Atatiirk che ha rivoluzionato la politica turca e del Medio Oriente. Tutte queste coste, da Smirne ad Istanbul, da Venezia a Barcellona era-no luoghi di vibrante attivismo commerciale e culturale e la pre-senza di Joyce a Trieste dove scrisse l’Ulisse ne è la prova.

L’IDENTITÀ EUROPEA

In un qualsiasi museo del Centro Europa, l’identità europea la vedi appesa ai muri perché vi sono raccolti, dal Neoclassicismo al moderno, tutti i momenti creativi. L’identità dell’Europa moderna si nutre di diversità. L’europeo non ha la monumentale certezza dell’americano, del resto la profondità delle tragedie che ha vissuto lo porta ad essere critico. Questo vuol dire essere europeo: coltivare il dubbio, la distanza, e dunque esercitare la critica. L’europeo non può essere un uomo legato ad una forma qualsiasi di apologia come gli americani, che hanno le grandi praterie e ci hanno regalato un’idea unica dello spazio, e Pollock ne è uno dei protagonisti giustamente amato. Il suo lirismo è profondamente poetico e per niente apologetico. L’Europa non avrà mai una sola bandiera, ma tante, e questo non ci rende meno europei, ma caso mai di più. I pittori ideologici come Masaccio o Caravaggio hanno segnato la mia vita. I loro quadri non hanno il dogmatismo medievale delle icone. È gente che firma le proprie opinioni poetiche e le difende. La modernità della pittura è anche in questa firma. Il patrimonio visivo non esiste solo come storia, ma come presenza condizionante e la novità, anche la più estrema, dialoga e ri-immagina questi testi fondamentali che sono le pitture e i loro segni apocrifi. La globalizzazione sicuramente serve all’America per non ricadere nell’isolazionismo, e serve alle forze separatiste europee perché crea un alibi per non unirsi veramente. Ma per quel che riguarda la poesia scritta in lingua non serve a niente. Anzi è piuttosto dannosa.

DOV’È IL POPOLO?

Da sempre il popolo ha scandito i limiti ed ha separato nettamente il bene dal male, forse ha anche trovato il fondamento che è dietro al bello. La politica esiste come esiste l’opinione o l’emozione. Non è stato il Capitale di Karl Marx, ma piuttosto i romanzi di Dickens o Victor Hugo ad avermi spinto ad essere partigiano di colui che soffre, ad essere vicino non agli Dei dell’Olimpo o alle Feste Galanti di Watteau, ma ai contadini di Millet. Oggi in Europa non esiste più né una vera sinistra né una vera destra. Sono sparite le opinioni forti, non esiste più la classe operaia, e dicono che non ci sia più nemmeno il popolo. Come facciamo a vivere senza popolo? Capisco che si possa vivere senza la classe operaia, ma senza popolo? Tutta la nostra tradizione pittorica nasce da un concetto popolare della civiltà contadina, così come le Madonne, quelle dipinte da Tiziano, che utilizzava delle prostitute come modelle. È difficile distanziarsi dal concetto di popolo. Forse abbiamo capito con il passare del tempo che il concetto di massa non era realmente importante, ma quello di popolo è importantissimo, qualsiasi cosa è nata da quell’indicazione.

IL TERRORISMO

Sostenere il Cubismo oggi, davanti alla volontà americana di gestire il secolo, è già eversivo. Ricordo le nostre mostre degli anni Sessanta, formalizzate fuori dalla tela con telaio, che rivoluzionavano non solo l’aspetto visivo ma minavano il sostegno ad un certo tipo di forma che era finito col rappresentare la conformità, e offrivano anche una diversa gerarchia di valori. Oggi c’è una grande velocità che ha ucciso il tempo, non c’è più una borghesia capace di mediare. Gli eventi sono talmente rapidi che tutti viviamo in un terribile parossismo. Il terrorismo nasce dalla complessità dell’Occidente. Noi occidentali offriamo non solo i prodotti, ma ne facciamo anche la critica. Dunque mettiamo una pesante ipoteca sul nuovo. Gli altri hanno solo la possibilità di consumare.

LA SINISTRA E L’ARTE

Il mio sentimento di sinistra viene da un quadro, i Mangiatori di patate di Van Gogh. La sinistra oggi è diventata astratta, mentre storicamente nasce per contrastare la destra e portare una moralità diversa, un concetto diverso di pratica civile. Oggi, lontane dalla loro fonte popolare, le virtù di prima vivono nell’ombra, ma non si sa però in quale struttura piranesiana le hanno depositate. Così è arrivata l’incertezza. Di fronte al monumentalismo del Ventennio i paesaggi romani di Mafai nascono dall’opposizione e sono di sinistra, ma per quel che riguarda la pittura, l’appartenenza ad un partito non conta. Oggi più di ieri si vede con chiarezza che esistono dei legami fra Sironi e Burri almeno come emotività, come capacità di ancorarsi all’Italia, e questo non è uno scandalo.

ARTE E POLITICA

Se uno vive dentro la città si accorge facilmente che il potere politico lascia dei segni visibili e condizionanti. L’artista che lo ignora è difficile da comprendere. Esiste naturalmente la scelta dell’eremo, ma è lontano dal centro delle case. Gli artisti non servono a niente. Costruiscono il proprio immaginario con una lentezza senza precedenti, portano all’estremo la loro capacità di essere comprensibili attraverso la lingua e possono essere, per chi li legge, l’introduzione ad una frequenza diversa. Isaac Singer scriveva articoli in yiddish per un giornale ebraico di New York che aveva trecento lettori. Lui credeva che fosse importante scrivere senza tenerne conto, come fa un buon parroco di campagna, o un artista di Avanguardia alle sue prime esperienze espositive. Grande precisione e poco pubblico, ma è difficile immaginare il teatro di Beckett dentro un’arena. Oggi i politici inseguono la chimera della globalizzazione con le sue tecniche televisive di alto gradimento. Bisogna dire loro che quei musei chilometrici, disegnati con maestria e destinati ad accogliere milioni di spettatori all’anno, offrono un’idea di cultura drasticamente contraria al modello dadaista del Cabaret Voltaire. Se invece la costruzione è oggi quello che conta, se l’epoca del virtuale ha fatto il suo tempo, forse quell’attitudine sottile ed acuta che gli artisti offrono, in quanto costruttori di immagini per eccellenza e in grado di trasformare la materia, può essere utile al politico: offre il passato su un piatto d’argento, riplasmato, e nei casi migliori brillante e dialettico.

 

Breve taccuino orientale

Negli ultimi vent’anni ho viaggiato per scelta nei Paesi più poveri del pianeta. Prima di partire mia madre dice sempre: ‘Ma perché non vai a visitare chi sta meglio di te? ‘. Perché i Paesi che stanno meglio di noi sono pochi; il mondo è fatto in gran parte di natura inabitata e da continenti che versano in condizioni di disumanità e miseria inconcepibili. Al ritorno da ognuno di questi viaggi, una sola cosa ho però sempre capito: le ragioni della Storia sono immutate da millenni, e la strada per iniziare a cambiare un poco le cose parte sempre e solo da noi. Nessuna rivoluzione collettiva funzionerà, nessun miracolo salverà miliardi di persone. Onestà, gentilezza, coerenza e cura: ciascuno può imparare ad ascoltare, a porgere un aiuto, a non giudicare, a non sprecare, a donare. Sono queste la sola fede e la sola politica da praticare, ed in cui oggi vale la pena credere. Non mi perderò in una mistica della povertà, ma di certo posso dire che ogni giorno, in ogni luogo e nelle condizioni più estreme, nei luoghi visitati ho sempre incontrato grazia, pacatezza d’animo, educazione e pudore; nessuna diffidenza, furberia o prevaricazione; delicatezza per le cose, fiducia in tutto ciò che non si può né fare né sapere. Ora, considerando che nessun progresso ha mai risolto granché dei problemi dell’esistenza, a parità di risultato io preferisco stare dalla parte di questa gente, per cui non esiste cammino più grande dei propri passi, e niente che travalichi la curva del giorno, con letizia per ciò che si è avuto, e nessun rancore per ciò che è mancato.
Per capire la violenza, la bellezza e l’indifferenza della vita, bisogna andare in un mercato del sud-est asiatico; a Phnom Phen per esempio, nel tanfo rancido di pollame macellato al caldo delle botteghe. Sputi, fango e fogne tra i piedi. Animali pronti a morire legati per terra, il loro sangue in faccia a una donna che ride e si pulisce come fosse pioggia. Mosche sulle carni delle bestie. Un pesce ancora vivo caduto da una cesta, muore sotto la ruota di una bicicletta. I dolci da offrire nelle pagode, l’oro finto per le onorificenze, motori di vecchi camion, incenso e sete. Centinaia di anatre arrostiscono senza posa. Un uomo chiede soldi col brandello di carne che gli è rimasto al posto del braccio. Una ragazza incinta dorme coperta di immondizia. Giovani puttane e vecchi turisti soli al pascolo. Macerie, e case che si costruiscono nel giro di una notte. Panni stesi ad asciugare sopra le viscere calde dei porci. Bambini nudi giocano nella feccia, felici come bambini. Alla fine, però, come sempre nella vita si ricordano solo colori, pochi volti e alcuni profumi. I miei piedi scalzi sulle pietre e nel terreno: neanche cento metri e già si lamentano, ma non bisogna fermarsi: è giusto che ricordino cos’erano una volta i piedi. Incontro un manipolo di provinciali, che per tutto il tempo rimpiangono le spiagge appena lasciate, i confort delle loro case italiane, la Nutella. Sulle strade vanno motocicli di fortuna e carri trainati da buoi. La venditrice di frittelle al mercato di Phyu mi saluta gentilmente e abbassa lo sguardo: aspetta che sia io a desiderare. I templi di Bagan somigliano alle piramidi egizie: tanto splendore per contenere cosa? A dimostrazione che alla lunga solo le cose inutili la spuntano.
Stormo di uccelli su Mingun, in volo come un nastro sciolto. Mandalay; città brutta e chiassosa, che dopo le due del mattino ritrova tuttavia il silenzio dei villaggi, interrotto solo da un grillo o da un gufo. Trasportatori di riso bevono il tè seduti in acqua tra le piante del fiume. Quando mi vedono passare sorridono, schernendosi come bambine. Ad Amarapura, un pittore sul ponte dipinge gouache per i turisti. ‘Banale’, dice uno alle mie spalle. Nei dipinti si vedono un fiume, un albero, una casa, un ponte, una figura che va o che torna: mi chiedo in cos’altro consiste in fondo la vita.

Litoranea

Giornata calda, velata e ventosa. Attraversando il tratto di città verso il mare, vedo negozi che non c’erano tre mesi fa, con nomi e grafiche che ricordano le grandi metropoli. Dai negozi di abbigliamento escono folate di aria bollente e colla cinese. Molti punti scommesse e sale da gioco. Un manifesto promette di pagare il tuo argento a peso d’oro. Fondo stradale pessimo; la prova di destrezza non riguarda quale fossa evitare, ma come affrontare al meglio quella meno profonda. Sul rettifilo del lungomare, vedo intatte le insegne dei lidi, vuote le spiagge. Le macchine che escono dai parcheggi sono quelle dei clienti che vanno a puttane. La pista ciclabile costata miliardi è un viale lurido e sconnesso, delimitato da uno steccato in legno su cui marocchini e tunisini passano il tempo a controllare un traffico di affari e spostamenti che sfugge ai più. Un’auto della polizia passa a tutta velocità, diretta altrove.
Paesaggio basso, niente palazzi, a parte qualche albergo dipinto col verde del camice dei dentisti o col giallo delle uova andate a male. Il mare e la spiaggia, con pescatori seduti in mezzo a una spazzatura finemente distribuita. Aree coltivate, un campo da golf, venditori abusivi di carciofi arrostiti, un caseificio, la torre in cemento di una fabbrica dismessa, avvolta da ragnatele di edera rossa. Tra le serre, un casolare abbandonato senza finestre mostra file di panni stesi ad asciugare. Le biciclette cadute nel terreno o accatastate contro il muro, sono le automobili degli extracomunitari. Più avanti, un muro di cemento delimita campeggi chiusi. Vedo la baracca abusiva di un ristorante dove una volta si mangiava il pesce buono. Ancora qualche chilometro e mi fermo per un caffè. Il bar è a ridosso della pineta. La signora al banco è un’italiana sui trent’anni, che ne dimostra cinquanta. Mentre il caffè scende, fissa fuori dalla finestra con lo sguardo di una madre che pensa al figlio in guerra. Chiedo del bagno: è fuori, seconda porta a destra. “Toilette” scritto a mano con l’Uniposca fucsia. La porta è aperta perché non si chiude. Sono stati asportati maniglia, lucchetti, lampadine, le manopole del rubinetto. Sul pavimento del bagno, una bottiglia di plastica vuota, confezioni di fazzoletti di carta, tovagliolini sporchi, un preservativo pieno. Torno indietro a chiedere un po’ di carta igienica. La signora prende un rotolo, si avvolge lungo il polso un paio di giri e me li porge. Le chiedo perché non lascia la carta in bagno: ‘Perché se la portano a casa’. Riprendo il giro. Penso che se questo posto si fosse trovato per esempio in Emilia Romagna, sarebbe diventato un luogo ricco e sicuro: avrebbe portato gente, denaro, e soprattutto dato un senso all’aeroporto di Pontecagnano, fantasma nei paraggi. E invece tutto è rimasto come molte cose da queste parti, nell’irrimediabilità che chiama scrittori, accende amori impossibili e fondati rancori.
Sulla via del ritorno, una prostituta siede su una cassetta rovesciata come su un bidet. Bionda, forse straniera, in là con gli anni. Poco più avanti, sul muro alle sue spalle, qualcuno ha scritto con lo spray nero “Qui fica, economica e amica”.

Foto: Eliana Petrizzi

I raccolti dello sguardo

agro

Il pieno giorno ha la maledizione dell’insonnia. Accanto alla macelleria chiusa sta il negozio “Tutto a 10 Euro”, chiuso pure quello. Sulle panchine in piazza, quattro anziani siedono dall’alba come lattine del tiro a segno. Guardo lo scorcio di una casa con una finestra vuota, la montagna, un fumo snello che sale, il muro di una fabbrica col graffito “Mio figlio non è solo tuo”.
Ore 11,00: vado in ospedale a donare il sangue. Nel reparto ci sono soprattutto giovani in jeans a vita bassa e t-shirt con disegni violenti, teste rasate, sopracciglia sfoltite, la pelle scura per la vita all’aria aperta, molti tatuaggi su ex muscoli da palestra, lo sguardo senza pietà dei bambini che non sono mai stati. Una signora va a lamentarsi, perché uno che perdeva sangue ha seminato gocce lungo il corridoio fino a dentro il lavandino del bagno. Un infermiere risponde: “Non è di questo reparto”. Fuori la finestra, nuvole chiare si spostano senza particolari intenzioni.
Alle 14,00 solo il vento è cambiato: la bandiera dell’Italia punta a ovest. Accanto alla pubblicità del supermercato, un 6×3 annuncia il matrimonio di due giovani: con l’effetto flou, i visi racchiusi in un cuore e la scritta “Destinazione Paradiso: insieme per sempre”, la foto sembra quella di due fidanzati morti in un incidente stradale.
Davanti a un disco bar dal nome esotico svetta una palma finta come ne crescerebbero dopo una catastrofe nucleare. Fabbriche chiuse, con parcheggi grandi come aeroporti. Al bar cerco il bagno, attraversando la sala giochi. Contro il muro ci sono cinque macchinette occupate; un ragazzo spinge il bacino contro i pulsanti come si scopa una puttana. Cielo scuro, tuoni, poi solo una pioggia inconcludente. Più avanti, qualcuno ha spicconato il muro del ciglio e ci ha ficcato dentro un Gesù Cristo grande come un nano. Sui manifesti vedo soprattutto cantanti neo-melodiche, agghindate come pornostar. Verso il centro, osservo abitazioni dai colori delicati, nella resa dell’abbandono. All’ incrocio, un venditore abusivo di cozze sta seduto con le cosce aperte al centro della via, in pantaloncini corti e torso nudo; tatuato sul braccio il Cuore di Gesù con la scritta “Mamma perdonami”. Dalle mie parti piove. Meglio andare verso Pompei, seguendo paesi che si distinguono l’uno dall’altro solo per un’insegna ogni tanto. La strada che porta al centro è circondata da coltivazioni di cipolle, ortaggi, alberi da frutta e case basse. Silenzio, odore di pioggia caduta lontano, l’afa dolciastra di una carogna nell’erba. Molti manifesti funebri di giovani, con grandi foto di Padre Pio. Pompei centro. Bancarelle di souvenir. Turisti, pochi. Quello del bar dice che ne vengono sempre meno, da quando si è sparsa la voce che gli scavi se non sono chiusi crollano.
Alla fine, nemmeno oggi è piovuto. Il grigio si è mantenuto calmo, da sfondo a paesaggi che ricordano la pacata inumanità delle foto di Ghirri. I paesi senza trucco, se li osservi dall’alto se ne stanno come un mare da cui affiora ogni tanto un relitto. Poi però, mano mano che scendi quel mare diventa una risacca intessuta di grigi delicati, di ocre, di verdi e rosa antichi. Forme perse nelle trame dell’ora brillano in un tremore di miraggio. Se non si sapesse che secolo è, il paesaggio in lontananza sembrerebbe un dipinto di Leonardo o del Pinturicchio: stessa pace, stessa fiducia, stessa bellezza.

 

Passaggio in Rajasthan

india-7

Mi voto a un giorno per volta, come il piede alla pietra davanti passando un fiume. Silenziosa atmosfera ai passaggi di confine, uccelli migratori in composte forme mutevoli, l’anima di garza e il corpo caldo, tra pietre nuove. Il mio nome qui è parola infondata e transumanza. Raccolgo pensieri, cose da ricordare, oggetti trovati in strada per misteriose concordanze. Mezzogiorno: le capanne dei villaggi, i venti del monsone, il chiasso del mercato, l’odore dei miei abiti sdraiata nel terreno. Meglio non agitarsi se il momento non è propizio. In treno verso il deserto del nord, uomini in piedi fissano davanti, parlando delle proprie famiglie, del lavoro, del tempo. Passano in fila le gip dei turisti: le bambine offrono un fiore ai viaggiatori di passaggio, i bambini si lanciano al centro della strada, per incontrare in corsa il palmo aperto delle mani straniere. Portando i passi senza intenzione, scopro un respiro senza ritorno al punto di partenza. Dei villaggi del Rajasthan, mi piacciono la lentezza e le piccole scelte del momento. Passo il tempo tra le tende dei nomadi. Kapil, il mio autista, è un ragazzo di poche parole. Ci fermiamo in un paese sulla strada verso Jodhpur. Lui dorme da un parente, io in una stanza di calce bianca, su una stuoia per terra. Il vento caldo mi tiene salda allo splendore del giorno. Mi accorgo di come ogni cosa che accade nel momento presente abbia una risonanza profonda in ogni punto dell’universo, e di come ciò che credo disperso sia sempre riunito altrove. Le donne tornano nelle capanne, gli uomini riparano gli animali, i mercati sgombrano. Nei villaggi si accendono fuochi, si mangia in silenzio, ringraziando per il giorno trascorso. Chiudo gli occhi e vedo la forma dell’aria.

Foto: Eliana Petrizzi

 

Pandolina

Con oggi, fanno dieci giorni che convivo con una mosca entrata di soppiatto una domenica, mentre chiudevo la finestra. Di solito le mosche le stordisco con un panno, e ancora vive le ricaccio all’aperto. È inutile ucciderle perché muoiono anche da sole: d’ infarto, di fame, di vecchiaia, non lo so. Ma visto che prima o poi spariscono, non vedo perché eliminare questa, a cui ho dato il nome di Pandolina. Il primo giorno mi sono accorta che veniva attirata dalle briciole della colazione. Osservando Pandolina con un granello di zucchero mi sono chiesta: ‘Perché schiacciarla? Non sente forse anche lei paura e dolore? La sua fuga il primo giorno mentre cercavo di stordirla, non era degna di pietà, e non meno disperata di quella di un innocente inseguito dal cecchino? Se fosse rimasta moribonda o mutilata, chi sarebbe accorso a salvarla? Io chiamerei la vicina, un’autoambulanza, ma lei?’ Devo quindi cura e pazienza anche a Pandolina, che quando i primi giorni l’avvicinavo con lo straccio forse si accorgeva che stava per morire, perché volava alla rinfusa, senza capire a chi mai potesse dare fastidio il suo piccolo essere al mondo.
È giovedì, sono le due del pomeriggio e come al solito non ho niente da fare. Prendo il libro e mi porto accanto al vetro. Pandolina compie un tragitto lento e preciso da un capo all’altro del vuoto. Della sua specie, in casa ci sono solo il ragno Jack e una decina di formiche. Non ha dunque con chi condividere il territorio, tentare un accoppiamento, imbastire una conversazione, litigare per i pasti. Sgorby e Fermoimmagine non la turbano affatto. Schizza all’inseguimento di qualcosa d’invisibile, poi salta sul promontorio del mio ginocchio, in cima alle pagine del libro aperto.
Passano le ore e i giorni. La vita di Pandolina è elementare: vola, mangia, si nasconde, si palesa, scompare e riappare. Stamattina mi sono alzata alla solita ora. L’orologio si è fermato alle 4,38 del mattino. Di Pandolina nessuna traccia. Alle undici ho iniziato il mio giro per la casa. Ed ecco Pandolina, immobile come un pallino di lana ai piedi del balcone. Pandolina è morta: sono triste, di una tristezza accurata e profonda. Ne danno il triste annunzio le briciole del mattino, il sugo sull’orlo del piatto, il lino della tenda, i vetri, gli specchi e le pareti tutte; la punta del naso, il mio ginocchio e l’amico Dostoevskij, che a lei, non a me, aveva confidato i suoi ‘Ricordi del sottosuolo’.

Della vita tra gli altri

Ho condotto per anni una vita distante dagli altri. Poi è venuto un momento in cui il lavoro mi ha convinta ad essere presente, perché è pure vero che da soli non si vive. Ma ho presto concluso che tra gli altri, otto volte su dieci le cose che sorprendono vengono miseramente sconfitte da quelle che disgustano. Solo chiasso e messe in scena, in uno straripante sperpero di non senso.
Ho certo incontrato persone sensibili, vocate al rapporto col prossimo, di fine intelletto e cultura; e se mancava la cultura splendeva un animo limpido e generoso. Rare eccezioni purtroppo, troppo rare per condonare l’immagine dell’umanità che mi sono trovata a constatare. Tra gli altri ho capito l’importanza, se non della menzogna, almeno della bugia bianca, cioè di quel cauto omettere l’espressione compiuta di un pensiero, a difesa della sacrosanta necessità di una maschera, indispensabile per non restare sfigurati nella vita pubblica. Ho capito l’importanza del sorriso e di un aspetto possibilmente fiero, che attirerà l’invidia dei mediocri, ma pure le energie positive del mondo. Ho capito che gli altri mentono sempre e senza pudore; su ciò che posseggono, che fanno, che valgono. Credono in questo modo di sminuire l’interlocutore, spacciando per vantaggi o pregi solo il calco della loro mancanza, che però l’interlocutore attento stana.
Ho capito che ognuno di noi è al mondo per non morire solo, e questo porta a voler essere considerati, chiedendo un applauso almeno. Piccole vanità di percorso non manderanno all’inferno nessuno, e io per prima ne so qualcosa. Stupore, commozione e cura: questo sentimento speciale fatto di dolore e di speranza, è il solo motivo per cui vale forse la pena amare sempre e comunque. Ma quando si passa la misura, ecco l’individuo diventare una creatura goffa, che passa la vita a sgomitare per un posto sugli altri, commerciando coi piaceri più grevi, come vanità, lussuria, gozzoviglia, potere. Molti si fingeranno dalla tua parte per carpire confidenze che andranno poi a sperperare, zavorrate da crudeli maldicenze. Amico, parente, conoscente o collega che sia, l’individuo brillante, intelligente, colto, simpatico, con un discreto successo nella vita, alla lunga dà fastidio e stanca. Nella vita di ogni giorno vincono il focolare e la caverna, i tori da monta e le giumente silenziose. Le verità dell’etologia infilzano impunite il loro vessillo sulle inutili conquiste dell’evoluzione intellettuale. Meglio vivere a luci basse, affinché i mediocri e gli ignavi, ritrovando nelle tue lacune il meglio di sé, traggano da questo la loro forza e il loro conforto.
Mi conosco e so di me cose molto spiacevoli. Per questo, passo la vita nella fatica e nella speranza di migliorarmi. Il mondo però non mi aiuta, invitandomi troppo spesso a preferire la solitudine del mio studio e dei boschi alla compagnia della gente. La natura mi raccoglie e mi consola sempre. Seduta nell’erba sotto gli alberi, sento di amare ogni cosa indistintamente, soprattutto gli esseri umani, che così spesso mi causano amarezza. Poi torno a casa e la fatica di Sisifo ricomincia. A conti fatti devo ringraziare la pittura. Nella vita di ogni giorno, pensieri e azioni sono le convulsioni di un pesce che annega in aria. Ma quando entra l’arte nella vita, il tempo si alza nella sua pienezza di mondi possibili. In certi stati di grazia, mi capita di trovare una fiducia in ogni cosa e persona incontrata, che vale più di un’amicizia, più di una fede, e persino più di un amore.

 

Vita da SGORBY: vivere in casa con un piccione libero

Dicembre 2016
Molti mi chiedono se è possibile vivere con un piccione libero in casa: la risposta è sì. Come in ogni rapporto d’affezione (umano o animale non fa alcuna differenza), è fondamentale l’imprinting. Sgorby è stato raccolto su un balcone, caduto dal nido a pochi giorni dalla nascita. Era un uccellino curioso assai, coperto da una peluria gialla, con zampe enormi e una testa da rapace. Incerta a quale specie di volatile appartenesse, e giacché bruttino, mia sorella che l’aveva trovato pensò bene di chiamarlo SGORBY: nome cattivo ma simpatico, che perciò non gli abbiamo più cambiato. Continua a leggere